***Le Leggende e le Fiabe celtiche***
* La donna che riuscì a mettere nel sacco i folletti.
* Il suonatore di cornamusa di Keil.
* Il bimbo sostituito e la vecchia saggia.
SHAMUS DEL
KINTAIL
Nelle Highlands e nelle Ebridi vi è un'antica credenza secondo la quale un bimbo
può acquisire poteri soprannaturali se, dopo essere stato svezzato, beve il
primo sorso di latte dal cranio di un corvo, perché il corvo è considerato
l'animale più intelligente e saggio della sua specie.
Molto tempo fa viveva nel Kintail il capo di un clan che decise di scoprire se
vi fosse qualcosa di vero in quella credenza. Così egli, che si chiamava Conall,
fece bere il primo sorso di latte di vacca al proprio figlio Shamus
porgendoglielo nel leggero, fragile cranio di tale uccello. Per molto tempo non
vi fu alcun segno che il ragazzo detenesse alcun potere straordinario. Shamus
giocava e cantava esattamente come tutti gli altri bambini, e come loro era a
volte ostinato e a volte obbediente.
Ma un giorno suo padre lo vide che sedeva sotto un melo, mentre guardava in su
verso le fronde ed emetteva strani suoni che non appartenevano a una lingua
umana. Poi, quando Conall si avvicinò all'albero ci fu un gran sbattere e
frullare d'ali, e una dozzina di piccoli uccelli volò via spaventata.
"Oh, padre, li hai fatti fuggire pieni di paura" disse Shamus. "Stavano
raccontandomi delle terre calde che visitano ogni anno mentre noi rabbrividiamo
nel gelo invernale, e del grande oceano che stende le sue acque azzurre sotto il
sole, mentre giorno dopo giorno le onde grigie si infrangono sulle nostre
spiagge." "Ma come può essere, figlio mio?" chiese Conall.
"Gli uccelli non parlano il nostro linguaggio." "Però io capisco la loro lingua"
disse Shamus, "e posso parlare con loro e ascoltare i loro discorsi come se loro
parlassero la mia." Così Conall scoprì che a suo figlio era stato dato il dono
di comprendere il linguaggio degli uccelli, ed ebbe la prova che la vecchia
credenza riguardante il cranio del corvo diceva il vero.
Con il passare degli anni, il potere di Shamus non venne meno. Mentre cacciava a
cavallo conversava con il falcone appollaiato sul suo polso, e quando camminava
sulla spiaggia gli uccelli marini gli raccontavano dei viaggiatori che solcavano
il mare, e gli uccellini che volavano vicino alla casa di suo padre gli
parlavano di ciò che avevano visto nella campagna.
Crescendo, Shamus diventò un giovane pieno di saggezza e di coraggio, virtù che
andarono ad aggiungersi alle sue doti sovrannaturali. Tutti gli uomini del clan
erano convinti che sarebbe stato un degno erede del padre, quando fosse venuto
il momento di prendere il suo posto.
Ma un triste giorno accadde una cosa che suscitò l'ira del vecchio capo nei
confronti del figlio, e costrinse Shamus ad abbandonare la sua terra natale in
preda alla disperazione. Mentre una sera Shamus stava servendo il padre, seduto
alla grande tavola imbandita, Conall fece un cenno con la mano in direzione
delle travi annerite dal fumo che sostenevano il tetto del salone, dove
innumerevoli uccelli facevano il nido da tempo immemorabile, e disse: "Dimmi,
figlio mio, di cosa stanno chiacchierando stasera gli storni? Non li ho mai
sentiti fare tanto chiasso come oggi." Allora Shamus abbassò gli occhi sotto lo
sguardo del padre e rispose: "Se rispondo alla tua domanda, padre, temo che ti
adirerai." Naturalmente quella risposta non fece che aumentare la curiosità del
padre, e alla fine Shamus confessò: "Gli storni stanno dicendo che un giorno le
nostre parti si scambieranno, e che sarai tu a servire me alla tua tavola in
questa stessa sala, padre," Appena Conall ebbe udito queste parole, il suo cuore
si riempì d'ira: cos'altro avrebbe infatti potuto significare, quella profezia,
se non che un giorno il suo stesso figlio si sarebbe rivoltato contro di lui,
rubandogli l'eredità prima che fosse venuto il tempo?
'Traditore!" gridò il vecchio, scagliando a terra la coppa piena di vino.
'Tradiresti il tuo stesso padre?
Lascia la mia casa, dai l'addio agli uomini del tuo clan e fa che non ti debba
mai più rivedere!" E malgrado tutte le sue promesse di lealtà e devozione verso
il padre, Shamus fu costretto a dire addio alla sua gente e a lasciare la casa
nella quale aveva trascorso tutta la vita. Se ne andò dal Kintail come un
povero, senza portare con sé nient'altro che i vestiti che aveva indosso, e
quando arrivò sulla riva del mare pensò: "I! mondo intero si stende davanti a me
dall'altra parte dell'oceano. Troverò una nave e salperò verso i mari azzurri e
le terre piene di sole delle quali gli uccelli mi hanno parlato." Ora, dovete
sapere che quello stesso giorno una nave stava per partire verso terre
straniere, e Shamus si ritenne davvero fortunato riuscendo a farsi prendere a
bordo fra i marinai della cima. Navigò fra mari calmi e acque in tempesta, fno a
che la nave approdò alla bella terra di Francia. Qui Shamus decise di proseguire
il suo viaggio a piedi, così si mise in cammino nella campagna con passo leggero
e il cuore pronto alle avventure.
Dopo non molto tempo arrivò in un grande parco dove, tra i verdi steli d'erba,
crescevano i gigli. In lontananza intravide contro il cielo le sagome di cento
torrette dorate, e allora capì che era arrivato al palazzo del re. Mentre si
avvicinava al grande portone del castello sentì un rumore di legna segata e di
rami spezzati, e vide che un esercito di taglialegna era impegnato ad abbattere
un boschetto di pioppi che si ergeva davanti al cortile del castello. Ma c'era
ben altro da vedere: con sua grande meraviglia, Shamus notò che tutt' intorno al
palazzo il cielo era pieno di uccelli: piccoli passeri dalle piume brune che
riempivano l'aria di incessanti grida stridule, tanto da costringerlo a coprirsi
le orecchie con le mani.
Proprio in quel momento un servo gli si avvicinò:
"Ah, straniero" gridò, "hai un bel provare a tapparti le orecchie con tutto
questo strepito! È tutto inutile.
Non solo fuori dal palazzo, ma anche al suo interno siamo ossessionati da questo
continuo stridere e cinguettare. C'è di che far uscire di senno un pover'uomo, e
il re non sa più cosa fare per trovare il modo di liberarsi da questo flagello."
Immediatamente Shamus capì che lui solo, fra tutti gli uomini, avrebbe potuto
aiutare il re in difficoltà, così chiese al servo di portarlo al cospetto del
sovrano. Il servo gli fece strada lungo gallerie dove stormi di passeri
sbattevano le ali contro i muri rivestiti di pannelli di legni preziosi; lo
condusse attraverso un passaggio, su una terrazza, dove le dame della corte
tentavano invano di conversare l'una con l'altra strillando per cercare di farsi
udire in mezzo a quel frastuono ininterrotto. In seguito giunsero in una stanza
ornata di colonne, dove gli uccelli stavano appollaiati su ogni davanzale,
parapetto e cornicione, soffocando con il loro strepito le deliberazioni dei
consiglieri del re. Alla fine raggiunsero una cameretta, dove il pensieroso re
sedeva da solo. Le finestre erano chiuse ermeticamente, e una sentinella stava
in piedi accanto alla porta; ma nonostante queste precauzioni un passero più
veloce degli altri era riuscito a intrufolarsi nella camera quando, di buon
mattino, la regina si era recata a visitare il suo signore. Il re stava
guardando il passero, che si era appollaiato sul bracciolo della sua poltrona, e
appoggiava il mento al palmo della mano - una mano dalle dita piene di anelli -
con un atteggiamento di profonda disperazione.
"Ascoltatemi, sire" disse Shamus, "io credo, fra tutti gli uomini, di essere
colui che vi potrà aiutare a sventare la maledizione alata che si è abbattuta
sul vostro palazzo." Subito il volto del re si rischiarò, e una luce di speranza
si accese nei suoi occhi.
"Se ciò che dici è vero" dichiarò, "Ia tua ricompensa sarà grande, e con essa
avrai la mia eterna gratitudine. Ma perché pensi, tu solo fra tutti, di potermi
aiutare a risolvere ciò che mi affligge?" Allora Shamus parlò al re del suo
potere di dialogare con gli uccelli nella loro lingua.
"Deve esserci una ragione, sire" egli disse, "per la quale i passeri stanno
combattendo questa guerra contro di voi." Detto questo, si rivolse all'uccellino
che stava appollaiato a fianco del re, e gli parlò nella sua lingua, producendo
quegli strani suoni che. il padre aveva sentito per la prima volta molto tempo
prima, sotto l'albero delle mele. Come ebbe finito di parlare, l'uccello volò
sul palmo della sua mano aperta, e rispose con uno squittio eccitato del quale
il sovrano non poteva capire alcunché, ma che Shamus sembrava comprendere
perfettamente.
Poco dopo si rivolse di nuovo al re: "Oh mio sire, la soluzione del vostro
problema è piuttosto semplice. Voi siete incorso nelle ire dei passeri perché
avete ordinato ai taglialegna di abbattere i pioppi nei quali essi costruiscono
i nidi, e gli uccelli temono che presto rimarranno senza una casa. Ma promettono
che, se ordinerete ai taglialegna di interrompere il loro lavoro, non vi
arrecheranno più alcun fastidio." A queste parole il re si alzò e spalancò la
finestra della sua camera, impartendo ordini agli uomini della sua guardia.
Subito dopo, sei araldi con sei trombe d'argento uscirono dal castello per
proclamare che nessun albero, cespuglio, ramo o ramoscello che si trovava in
prossimità del palazzo avrebbe più dovuto essere abbattuto. E in più il re giurò
sulla sua gran barba e su tutti i santi di Francia che, se gli uccelli avessero
smesso di tormentarlo, Shamus sarebbe stato riccamente ricompensato.
Non appena l'ultima ascia dei taglialegna si fu azzittita, dalle lunghe gallerie
rivestite di legno, dalle terrazze dove le dame sedevano, dalla sala delle
colonne dove i consiglieri deliberavano e da ogni angolo e cantuccio del
palazzo, una gran moltitudine di passeri si alzò in volo, sfilando a stormo
sopra le torrette dorate, per andare a ricostruire i nidi tra i rami dei pioppi.
E da quel giorno e per tutto il resto della sua vita il re di Francia non venne
più importunato nemmeno dal più piccolo passerotto.
Tenendo fede alla parola data, ricompensò con generosità Shamus per l'aiuto che
gli aveva dato, e gli donò una gran quantità d'oro e una galea con preziosi
addobbi, provvista di un valoroso equipaggio.
Con questa splendida nave Shamus salpò verso il mare aperto, in cerca di altre
avventure. Visitò il paese dei Mori, dove la terra è ricoperta d'oro che nessuno
raccoglie, come se si trattasse di pietre sparse sul fianco di una collina, e
navigò tra isole incantevoli dove nessun piede umano si era mai posato. E
dovunque andasse, la sua ricchezza e la sua saggezza aumentavano. Ma pur
visitando tutte quelle terre lontane Shamus non dimenticava mai le colline, i
laghetti montani e i pendii ricoperti d'erica del kintail, e dopo dieci anni di
peripezie e avventure non potè più resistere al gran desiderio di ritornare alla
sua casa, e di rivedere la sua gente.
Un bel giorno, la ricca galea dalla propra d'oro si innoltrò nelle nebbiose
insenature del mare che circonda le Ebridi, e gettò l'ancora nello stretto
canale fra Totaig e un'isoletta rocciosa. Gli uomini e le donne del clan di
Shamus si spinsero fin sotto la grande nave, meravigliandosi di vedere
un'imbarcazione di tale magnificenza e chiedendosi quale ricco straniero fosse
mai arrivato alle loro spiagge. Portarono la notizia al vecchio capo Clan, lo
stesso che molto tempo prima aveva scacciato il figlio, e quello si fece
incontro allo straniero per offrirgli ospitalità. Egli non riconobbe suo figlio
nell'uomo di bell'aspetto che accettava di condividere il suo tetto, ma tratto
Shamus con tutti gli onori dovuti a un giovane gentiluomo dal portamento così
nobile. Quella stessa sera durante la festa che era allestita per lui, Shamus
rivelò la sua identità e sanò la ferita che lo aveva diviso dal padre. Seguendo
gli usi di quei tempi, in base ai quali era il padrone di casa in persona a
dover servire l'ospite d'onore, il vecchio capo del Clan portò il vino a Shamus
mentre questi sedeva alla grande tavola. Quando il vecchio si inginocchiò
accanto al figlio, offrendogli la coppa perchè bevesse, Shamus esclamò:
"Oh, padre mio, non ti ricordi di me? lo sono il figlie I che scacciasti pieno
di collera a causa della profezia fatta dagli uccelli. Ora quella profezia si è
avverata, perché tu stai servendomi alla tua stessa tavola. Oh, padre, ricevimi
ancora come tuo figlio! Una volta di più ti giuro che il pensiero del tradimento
non mi ha mai sfiorato il cuore, e che contro di te non ho mai concepito alcun
malvagio proposito./I A queste parole il vecchio balzò in piedi con un grido di
gioia e si gettò fra le braccia di Shamus. In presenza di tutti coloro che
affollavano la grande sala egli restituì al figlio tutti i suoi diritti di
erede, e grande fu la gioia degli uomini del clan.
Quando il racconto delle peripezie di Shamus venne reso noto, la sua fama di
viaggiatore fece il giro della regione, fino a che un giorno arrivò anche alle
orecchie del re di Scozia. A quel tempo, la costa occidentale della Scozia
veniva spesso devastata dagli attacchi e dai saccheggi dei navigatori
scandinavi, e il re stava cercando un uomo degno di fiducia da porre al comando
di una roccaforte sulle coste del Kintail.
Chiamò Shamus alla sua corte e, trovandolo uomo di grande saggezza, gli ordinò
di costruire un castello su Eilean Donan, l'isoletta rocciosa di fronte a Totaig,
perché diventasse una torre d'osservazione e una fortezza a difesa dagli
invasori scandinavi.
L'EACH-USIGE
Peggac, la piccola vacca bruna della mandria di Anna, era un animale
imprevedibile: appena le si presentava l'occasione iniziava a girovagare,
portandosi dietro tutte le sue compagne. La pastorella non la perdeva mai
d'occhio, nemmeno quando si fermava a riposare.
Quel giorno, mentre era seduta sotto un albero, Anna udì un forte muggito e
istintivamente volse lo sguardo verso Peggac. La vacca si era alzata e con essa
tutti gli altri animali per osservare una sagoma scura che si avvicinava di gran
carriera. Era un cavallo dalla folta criniera e dalla lunga coda, con un
mantello più nero delle ali del boobrie, il mitico uccello che si leva in
volo al crepuscolo. "Di chi può mai essere quell'animale?" pensò Anna, sorpresa.
Nessuno dei suoi vicini possedeva un cavallo tanto prestante.
Il cavallo apparve ancora il giorno seguente e poi tutti gli altri giorni, fino
al termine della settimana.
Ogni volta si avvicinava sempre più alla mandria, finché le vacche presero
confidenza e, quasi, non fecero più caso alla sua presenza. Peggac, lei sola,
pareva inquieta.
Quando Anna raccontò ai genitori dello strano cavallo apparso nella brughiera,
anch'essi si mostrarono preoccupati. Sapevano infatti che nel lochan dove
crescevano le ninfee viveva un Each-Uisge.
"Devi correre a casa quando lo vedi arrivare" le intimò il padre. "Quella è una
creatura malvagia che vive nel lochan. Molti uomini sono stati trascinati nelle
sue acque dall'Each-Uisge." "Ma è un animale straordinario" rispose la ragazza.
"Forse potremmo domarlo, e ci sarà di aiuto a trasportare la torba che estraiamo
dalla brughiera. Ha una groppa ampia e forte." Il padre sembrò sul punto di
cambiare idea.
"C'è un solo modo per catturare e domare una di quelle bestie" le spiegò.
"Bisogna afferrare la cavezza che indossa! Chi avrà ridotto in suo potere un
simile animale potrà ben dirsi fortunato: quei cavalli lavorano per dieci senza
mai fermarsi. Se solo avessi il coraggio di affrontarlo... Un cavallo come
quello renderebbe orgoglioso il suo proprietario!" Each-Uisge continuò a
frequentare il pascolo dove si recava Anna e, con il passare del tempo, anche
Peggac si tranquillizzò e smise di aver paura di lui. E quello era proprio il
momento che la creatura aspetta-
Un giorno improvvisamente spiccò un balzo verso la mandria e azzannò Peggac. I
suoi denti affondarono vigorosamente nel collo della vacca, dopo di ché l'Each-Uisge
cominciò a trascinarla verso il lochan.
Anna fuggì a casa per avvertire immediatamente il padre che tornò con i cani
mettendo in fuga il malvagio animale. Purtroppo però Peggac era morta. L'uomo
dovette così escogitare un modo per eliminare l'Each-Uisge, temendo che potesse
uccidere anche sua figlia.
II padre di Anna scuoiò la povera Peggac, prese la pelle e la mise a seccare al
sole. Quindi la ricucì, dopo averla imbottita di felci. II giorno dopo,
indossando quella pelle, si sdraiò sull'erica proprio come avrebbe fatto Peggac.
L'Each-Uisge non tardò a comparire. Notò la vacca sdraiata e si avvicinò con
circospezione. Alghe e fango ricoprivano il suo mantello, mentre dal suo collo
pendeva una robusta cavezza. Non appena si sentì addosso il fiato rovente
dell'animale, il padre di Anna afferrò la fune tenendola ben stretta. Il cavallo
tentò di fuggire, scalciando furiosamente e impennandosi, ma l'uomo non cedette
la presa. Anzi, riuscì ad alzarsi e montò in groppa all'animale che,
immediatamente, si acquietò.
Da quel giorno il cavallo nero visse nel piccolo campo del padre di Anna. Come
un puledro docile e ubbidiente, lavorava da mattina a sera senza mai stancarsi.
E mai cercò di far ritorno alle acque del lochan.
Passò il tempo e un giorno Anna trovò una splendida cavezza in un angolo della
stalla. Non immaginando che potesse essere la stessa cavezza che la creatura
aveva portato con sé molti anni prima, la fece dolcemente scivolare sulla
criniera del cavallo. Poi gli saltò in groppa, come era abituata a fare.
Il cavallo rimase immobile per un lungo istante, poi emise un urlo selvaggio, si
impennò furiosamente e si lanciò al galoppo nella brughiera verso il lochan
delle ninfee.
Così pagò il suo ardire il contadino di Duirinish, e sua figlia Anna non fu mai
più rivista.
LO SGABELLO MAGICO
C' era una volta una bella ragazza chiamata Nighneag. Fin da quando aveva sedici
anni i ragazzi delle città vicine avevano mostrato uno speciale interesse per
quella fanciulla così minuta, così leggera e amabile e dalle labbra rosse come i
frutti del sorbo selvatico. I suoi occhi grandi scintillavano di un azzurro
profondo, mentre i capelli scuri le ricadevano a boccali sul collo slanciato.
Le figlie dei vicini la guardavano passare con l'invidia negli occhi. Nighneag
sapeva di essere bella: non era solo il mondo intero a confermarglielo -
Alasdair, Murdo e le dozzine di altri ragazzi che aveva incontrato - ma anche il
piccolo specchio vicino alla finestra della sua stanza che restituiva ai suoi
stessi occhi la sua immagine. ' Con il passare del tempo, però, Nighneag divenne
sempre più vanitosa e insoddisfatta. "Una damigella così bella e delicata" si
diceva, "non dovrebbe trascorre re la vita ai margini di una desolata brughiera,
passando il tempo ad accudire una mandria di stupide vacche, a spazzare la
piccola fattoria e a faticare insieme al padre nei campi." Un giorno in cui si
sentiva particolarmente infelice, mentre si recava a riprendere la mandria al
pascolo, prese a lamentarsi a voce alta con le povere bestie. Le vacche erano
abituate alla lingua tagliente di Nighneag e alle sue interminabili lamentele
ma, fino a quel giorno, non le avevano prestato alcuna attenzione, cosa che
esasperava ulteriormente la ragazza. Nighneag le rimproverò in tono astioso per
la fatica che doveva sopportare a causa loro. Se non avesse dovuto accudirle
avrebbe ben potuto spendere il suo tempo a pettinarsi davanti allo specchio,
oppure a tagliare e cucire dei vestiti nuovi. In poche parole, a coltivare la
sua avvenenza.
Quella volta, mentre stava già per andarsene, la ragazza udì una vocina
provenire dal bosco di erica:
"Aspetta un momento, Nighneag! Non te ne andare!" La bella si guardò attorno
sbigottita e vide una donnina correre verso di lei tenendo fra le mani uno di
quegli sgabelli a tre zampe che si usano per mungere le vacche.
"Ohi, ohi, aspetta, non andare così veloce!" gridò ansimando la donnina. "Ho
udito i tuoi lamenti e ho pensato che, beh, se mungere le vacche ti reca
disturbo, ho qui questo piccolo sgabello che forse ti potràn servire." La donna
lo sollevò con le braccia perché Nighneag potesse vederlo.
La ragazza non nascose la sua delusione: non era certo uno sgabello ciò che
avrebbe desiderato, sospirò, ma qualcuno che mungesse al suo posto!
"Oh, aspetta un attimo" la chiamò la donnina, che aveva letto nei suoi pensieri.
"Questo non è affatto uno sgabello qualunque. Siediti a fianco di quella vacca
dal pelo rossiccio e guarda la differenza." Nighneag prese lo sgabello e lo pose
a fianco della vacca. Poi, con aria svogliata, cominciò a mungerla. E quale non
fu la sua sorpresa quando scoprì che il secchio si era riempito subito di latte
senza dover fare alcuna fatica. Allora prese lo sgabello e lo sistemò di fianco
alla vacca bianca, e infine munse quella nera.
In tutto non ci vollero più di due minuti: incredibile!
Anche le vacche parevano ben contente e ripresero a pascolare.
"Ti chiedo una piccola promessa in cambio del mio sgabello" squillò la donnina
con un ampio sorriso. Nighneag si limitò ad annuire, anche se in cuor suo
sarebbe stata disposta a regalarle perfino le scarpe che Portava ai piedi pur di
avere quel magico sgabello.
"Promettimi che da oggi in poi sarai gentile con le tue bestie" proseguì la
donna. "Rimproverale pure ma non colpirle mai né con la mano né con il bastone.
attenta perchè se lo farai lo sgabello a tre zampe non te la farà passare
liscia!"
Nighneag assentì con un piccolo inchino; in fondo non sembrava una promessa
difficile da mantenere. Ringraziò la donna e se ne andò, tenendo ben stretto lo
straordinario sgabello. E finalmente la ragazza non ebbe più a lamentarsi della
fatica di mungere le vacche; anzi, l'incombenza cominciò a sembrarle quasi
piacevole.
Naturalmente però nel corso della giornata la attendevano parecchi altri compiti
fastidiosi: pulire i pavimenti, lavare le pentole, tagliare le rape e
distribuire le granaglie al pollame. Nuovamente si ritrovò a desiderare che
qualcun altro prendesse il suo posto e ricominciò a lamentarsi dalla mattina
alla sera.
Finché un giorno, mentre stava tornando dal pascolo si dimenticò della promessa.
Beth, la vecchia vacca dal pelo rossiccio, non ne voleva sapere di affrettare il
passo; Nighneag staccò un ramo da una siepe e cominciò a frustarla energicamente
sui fianchi.
Giunsero alla stalla e .la,ragazza si sedette sullo sgabello magico per iniziare
a mungere ma, improvvisamente, le tre gambe si misero a saltellare allegramente.
Il secchio del latte si rovesciò e, come se stesse cavalcando un riottoso
somaro, Nighneag si trovò sballottata su e giù in sella allo sgabello che, nel
frattempo, era schizzato fuori dalla stalla. Atterrita dallo spavento, la
giovane provò invano a divincolarsi e a saltare a terra. Niente. Lo sgabello la
teneva saldamente attaccata a sé.
Con la povera Nighneag sempre in sella, lo sgabello saltò qua e là per tutto il
podere nei pressi della fattoria, gettandosi in mezzo alle siepi e ai rovi,
tuffandosi nei cespugli di ortiche, nei torrenti e nei fossati. Giunto al
confine della brughiera, spiccò un gran balzo in aria e sparì, scaraventando
Nighneag in mezzo all'edera. La giovane si ritrovò ricoperta di spine da capo a
piedi, la candida pelle piena di graffi e vesciche, i capelli tutti scompigliati
e pieni di nodi. Le vesti erano lacere, e aveva perfino perduto le scarpe.
Nell'udire tutto quel trambusto, Murdo il pastore, Tom il tessitore e Alasdair,
che viveva nella fattoria vicina, accorsero per vedere cosa stava succedendo. In
quel momento la ragazza, barcollando, si stava rimettendo in piedi. I tre uomini
rimasero dapprima a bocca aperta, poi la bocca si spalancò in un sorriso e
infine in una fragorosa risata. Risero, risero e risero fino a sentirsi male.
Con il volto rigato dalle lacrime, Nighneag corse immediatamente
all'abbeveratoio per lavarsi le ferite e lenire il dolore con acqua gelata.
L'immagine di sé che le restituì lo specchio d'acqua la fece dapprima Sorridere
"d , poi n ere sonoramente. Ma la cosa più strana fu che più rideva più le
sembrava di stare meglio. I graffi e le ferite smisero di dolere, i nodi nei
capelli si sciolsero docilmente fra i denti del pettine e la ragazza provò una
sensazione di benessere: in vita sua non era mai stata così felice.
Da quel giorno il sorriso non se ne andò più dalle sue labbra. Nonostante la
perdita dello sgabello magico Nighneag si sentiva spensierata e, durante le
lunghe giornate di lavoro, cantava senza sosta. La sua bellezza continuò a non
avere eguali, tanto che un giorno il figlio più giovane del signore di quelle
terre chiese la sua mano.
E, spero che siate d'accordo, questa è la giusta conclusione di una storia tanto
strana e singolare.
LA DONNA CHE RIUSCÌ A METTERE NEL SACCO I FOLLETTI
C'era una volta una fornaia così provetta che tutto ciò che usciva dal suo forno
era addirittura irresistibile. Sfornava focacce d'avena di una delicatezza tale
da sembrare tortine di grano, e le sue tortine di grano erano talmente soffici e
gustose da competere con i migliori pasticcini; forse neppure gli dei avevano
mai gustato pasticcini sublimi quanto i suoi.
La sua fama era nota e indiscussa non solo nel paese in cui viveva, ma anche
nelle sette contee vicine: chiunque nel giro di molte miglia desse una festa,
celebrasse un matrimonio o un battesimo non mancava di commissionarle qualche
prelibatezza, e anche le famiglie più altolocate della regione si rivolgevano a
lei.
La donna non era solo dotata ma anche onesta e di buon cuore. Non disdegnava un
lauto compenso da chi poteva permetterselo ma sapeva essere generosa
con le persone meno abbienti. Se, ad esempio, un pover' uomo fosse andato a
chiederle di preparare un dolce per una speciale ricorrenza e le avesse offerto
timidamente il poco denaro che aveva, la fornaia avrebbe rimandato il pagamento
al momento del ritiro. Poi si sarebbe messa all'opera, avrebbe preparato un
impasto delizioso, facendolo cuocere come solo lei sapeva fare, e avrebbe fatto
pervenire il dolce, che non aveva nulla da invidiare a quelli confezionati per i
nobili, a chi glielo aveva ordinato. Il suo tatto faceva sì che non dimenticasse
mai di accludere al dono i migliori auguri, da parte sua e del marito, per il
nuovo nato o per gli sposi novelli, così da non ferire i sentimenti di alcuno.
La donna, insomma, poteva vantare notevoli qualità, ma quella che fece la sua
fortuna fu l'arguzia.
Talvolta, durante la notte, i folletti che vivevano nella collinetta fatata
nelle vicinanze raggiungevano il paese, e mentre tutti dormivano cercavano
nelle cucine qualche avanzo di dolce, prediligendo, come è facile immaginare,
quelli della fornaia. Ma quei dolci erano tanto buoni che difficilmente ne
avanzava più di una manciata di briciole.
I folletti cominciarono a sognare di avere la fornaia a loro completa
disposizione, per poteri e commissionare ogni sorta di leccornia, Finché un bel
giorno decisero di realizzare il sogno segreto: rapire la fornaia e teneri a per
sempre con loro a preparare delizie da non condividere con nessuno, L'occasione
adatta non tardò a presentarsi. Origliando dal buco della serratura della casa
della fornaia, un folletto venne a sapere che la donna era stata incaricata di
preparare i dolci per la festa di matrimonio che si sarebbe tenuta al castello.
Si trattava di una celebrazione importante, con centinaia di invitati, e la
fornaia avrebbe quindi trascorso l'intera giornata nelle cucine del palazzo,
sfornando dolci da mattina a sera.
Non sarebbe rincasata che all'imbrunire.
I folletti misero a punto il loro piano. La strada che dal castello portava al
paese passava proprio nei pressi della colli netta fatata in cui vivevano. Con
il favore del buio si appostarono e attesero nascosti nelle corolle dei fiori o
sotto le foglie.
Quando la fornaia fu vicina, i folletti scivolarono silenziosi fuori dai loro
nascondigli e la circondarono.
"Quante lucciole ci sono questa notte!" pensò la donna. Si trattava delle ali
dei folletti che scintillavano sotto i raggi della luna ma, prima ancora che
riuscisse a rendersene conto, i suoi rapitori le soffiarono polline di felce
negli occhi. Le energie l'abbandonarono all'istante.
"Forse oggi ho lavorato troppo" disse fra sé dopo un sonoro sbadiglio. "Ho
bisogno di fermarmi un attimo a riposare.
Si sentiva talmente stanca che si accasciò su una soffice zolla erbosa lì
accanto. Era la colli netta fatata:
appena la toccò cadde in potere dei suoi abitanti.
Quando riaprì gli occhi la donna si trovava nel regno dei folletti. La sua
arguzia le fece intuire immediatamente dove si trovava e come vi era arrivata,
ma riuscì a non perdersi d'animo.
"Che fortuna!" disse con voce allegra. "Ho sempre desiderato visitare il regno
dei folletti!" I folletti le spiegarono cosa volevano da lei.
"Non ho la minima intenzione di passare qui il resto della mia vita" pensò la
fornaia, "ma fingerò di stare al gioco." "Ma certo, povere creaturine!" disse
con partecipai zione. "Chissà quanti dolci mi avete vista preparare e mai uno
per voi!"
"Non vi preoccupate" aggiunse estraendo un grembiule pulito dalla borsa e
legandoselo in vita, "rimedieremo subito." I folletti esultarono per tanta
disponibilità, leccandosi la labbra al pensiero del magnifico dolce che presto
avrebbero gustato.
"Bene" disse la donna, "innanzitutto bisogna procurarsi gli ingredienti
necessari."
''Temo che non abbiate l'occorrente!" concluse dopo aver dato una rapida
occhiata in giro. "Bisognerà andare a prenderlo nella mia cucina." I folletti,
che ormai pensavano solo al dolce, non esitarono a mettersi a disposizione della
fornaia. Qualcuno corse dunque a prendere la farina e qualcun altro lo zucchero,
uno portò il cestino delle uova e un altro un panetto di burro; tutti correvano
avanti e indietro per procurare quello che serviva.
"Ecco, siamo pronti per incominciare" dichiarò infine la fornai a, "sempre
ammesso che abbiate una ciotola adatta per l'impasto." In tutta la collina non
fu possibile scovare un recipiente più grande di una tazzina da tè.
"Non c'è altro da fare" sentenziò la donna. "Dovete tornare nella mia cucina e
prendere la grande ciotola di terracotta gialla che si trova sullo scaffale
sopra l'acquaio." I folletti andarono a prenderla di buon grado, ma non era
ancora finita: mancavano anche i cucchiai di legno, la frusta per le uova e
mille altri arnesi. E ogni volta i folletti dovevano volare avanti e indietro
per portare tutte quelle cose. Solo il pensiero del dolce dava loro la forza per
sopportare tanta fatica.
Finalmente la donna iniziò a dosare, sbattere e mescolare gli ingredienti,
quando d'un tratto si fermò.
"È inutile!" disse con un sospiro. "Senza le fusa del mio gatto non riesco a
impastare."
"Andate a prendere il gatto!" fu l'ordine del re dei folletti.
Arrivò dunque il gatto, che si adagiò ai piedi della fornaia e iniziò a fare le
fusa. La donna tornò a impugnare il cucchiaio di legno e prese a mescolare
l'impasto con vigore. Presto però si interruppe nuovamente.
"Quanto mi manca il mio cane" disse con un nuovo
profondo sospiro. "Sono così abituata a mescolare seguendo la cadenza del suo
respiro che senza di lui mi sembra di non riuscire a trovare il ritmo giusto."
"Andate a prendere il cane!" gridò il re dei folletti che iniziava a spazientirsi.
Fu portato anche il cane, che si acciambellò accanto al gatto. L'uno russava,
l'altro faceva le fusa, la donna impastava e tutto sembrava andare finalmente
per il verso giusto.
"Sono tanto preoccupata per il mio bimbo" proruppe dopo non molto la fornaia. "Ho
passato così tante ore lontana da lui.J?t;?prio ora che un nuovo dentino sta per
spuntare. Temo di non farcela a impastare..." "Andate a prendere il bambino!"
tuonò il re dei folletti, senza neppure attendere la fine del discorso.
Fu portato anche il figlioletto che, come la donna aveva previsto, appena vide
la madre iniziò a strillare a più non posso: erano molte ore che non mangiava e
non si lasciava imboccare da altri che da lei.
"Mi dispiace darvi tanto disturbo" disse a gran voce la donna, cercando di
sovrastare le urla del bambino.
"Ma se smetto di impastare ora rischio di compromettere la riuscita del dolce.
Ci vorrebbe mio marito..." Questa volta i folletti non attesero nemmeno gli
ordini del loro re per volare a prendere l'uomo.
La fornaia mescolava l'impasto, il bimbo non smetteva di urlare, il gatto faceva
le fusa, il cane russava e l'uomo si sfregava gli occhi incredulo: prima gli
erano spariti da sotto il naso tutti gli utensili della cucina, poi i folletti
lo avevano preso di peso e portato via in volo e adesso era piombato in mezzo a
una confusione indescrivibile. Ma accanto a lui ora c'era sua moglie e, dove
c'era lei, le cose si rimettevano sempre per il verso giusto.
Per completare l'opera, la fornaia porse un cucchiaio di legno al bambino che,
senza smettere di urlare, iniziò a picchiarlo da tutte le parti. Era evidente
che quel frastuono infastidiva non poco i folletti;
questi però cercavano di non perdersi d'animo, convinti che tra non molto loro
fatiche sarebbero state ricompensate.
La fornai a impugnò la frusta e prese a sbattere le uova. "Pizzica il cane!"
bisbigliò al marito.
L' uomo aveva tanta fiducia nella moglie che, anche se l'intera situazione gli
sembrava assurda, si mise a pizzicare il cane: l'animale reagì abbaiando
fortissimo.
"UAF! UAF!" faceva il cane, mentre il bimbo continuava a strillare, la frusta
per le uova sibilava e i colpi del cucchiaio di legno rimbombavano.
"Tira la coda al gatto" sussurrò di nuovo la fornai a al marito, che riuscì a
stento a udirla in mezzo a tutto quel frastuono. L' uomo ormai aveva capito cosa
voleva la moglie e senza ulteriori imbeccate continuò a schiacciare con il piede
la coda del povero animale, che prese a strepitare come una dozzina di anime
dannate.
"l dolci sono pronti per la cottura" annunciò la donna con un sorriso. "Dov'è il
forno?" "Non abbiamo forni" rispose con voce fioca la loro regina dopo un lungo
attimo di esitazione generale. "Ma come posso cuocere i dolci, allora?"
insistette la fornaia.
1 folletti si guardavano sgomenti, senza riuscire a dare una risposta.
"Ho un'idea" riprese la donna, "potreste riportarmi a casa con i dolci giusto
per il tempo necessario alla cottura. Poi mi riporterete qui." I folletti
spostavano lo sguardo dal bambino al cucchiaio di legno, dal cane al gatto,
dall'uomo alla frusta per le uova, tenendo il fiato sospeso.
"Andate, potete tornare tutti a casa" sentenziò infine il re dei folletti.
"Purché non ci chiediate di portarvici: siamo troppo stanchi!" Tirarono tutti un
sospiro di sollievo ma la donna, malgrado la soddisfazione per essere riuscita
nel suo intento era sinceramente dispiaciuta per i folletti.
"Non posso lasciarvi senza neppure un dolcetto!" disse con slancio. "Ecco cosa
farò. Appena sarò a casa, farò cuocere i dolci e li riporterò vicino alla
collinetta, proprio nel punto in cui mi avete trovata. Non dovrete far altro che
prenderli e mangiarli. Anzi, farò di meglio: vi prometto che ne preparerò uno
alla fine di ogni settimana." A quelle parole i folletti ritrovarono il
buonumore.
La frusta sibilava: il bambino urlava, il cucchiaio di legno batteva, ti cane
abbaiava, ti gatto lanciava miagolii acutissimi e tutti insieme facevano un gran
baccano.
I folletti cominciarono a volare in cerchio cercando inutilmente di
proteggersi le orecchie.
L'arguta fornaia aveva architettato di arrivare a quel punto, ben sapendo ciò
che i folletti amano e ciò che detestano. Posò la frusta e versò con destrezza
l'impasto nelle teglie, sfilò il cucchiaio dalle mani del bimbo, lo prese in
braccio e gli diede una zolletta di zucchero, poi fece cenno al marito di
lasciar stare cane e gatto. Come d'incanto la quiete tornò a regnare nella colli
nettai i folletti si accasciarono a terra, stremati.
"Accettiamo volentieri l'offerta ma non lasceremo che tu ci batta in generosità"
ribatté il re dei folletti.
"Quando andremo a ritirare i dolci, lasceremo a nostra volta un piccolo omaggio
per te." La fornaia raccolse le teglie e invitò il marito a seguirla con i
cucchiai, la frusta, la ciotola, il bambino, il cane e il gatto. Bastò un cenno
del sovrano perché la collina si aprisse. La famigliola riprese la strada che
passava vicino alla collinetta e tornò tranquillamente a casa.
La donna mise i dolci nel forno, diede al bambino la sua cena, poi scodellò il
porridge che si era mantenuto caldo nel focolare.
La casa era come sempre immersa nella quiete.
Non si sentiva alcun rumore, fatta eccezione per il ticchettio dell'orologio, il
fischio della teiera, le fusa del gatto e il respiro profondo del cane.
L' uomo, felice della serenità ritrovata, guardava la moglie con orgoglio. "Non solo sei una fornaia eccezionale" le sussurrò dolcemente, "sei anche la
donna più arguta del mondo!" Era proprio così le due qualità non tardarono a
fare la fortuna della famigliola.
Quando infatti i dolci furono cotti a puntino, la donna li avvolse ancora
tiepidi in un panno e andò a portarli, come promesso, accanto alla colli netta
fatata. La fornaia stava chinandosi per depositare a terra il delizioso omaggio,
quando notò tra l'erba una piccola borsa marrone. La raccolse, l'aprì e questa volta rimase davvero senza
parole: era colma di pepite d'oro giallo scintillante.
La stessa scena continuò a ripetersi, settimana dopo settimana, mese dopo mese:
un dolce per i folletti, una borsa d'oro per la fornaia.
I folletti, come è facile immaginare, non cercarono mai più di entrare in
contatto diretto con la famigliola, divenuta ormai molto ricca: il patto non
venne mai rotto e tutti vissero felici e contenti.
UNA STORIA DA RACCONTARE
C'era una volta un uomo dell'isola di Uist che stava tornando verso casa dopo un
lungo viaggio, in un tempo nel quale viaggiare era una cosa ben più difficile e
faticosa di oggi.
In quei giorni i viandanti erano soliti recarsi a Uist passando per l'isola di
Skye, attraversando il mare da Dunvegan a Lochmaddy.
Il nostro uomo era stato in una regione interna della Scozia a lavorare come
bracciante durante il periodo della mietitura. Nel suo viaggio verso casa,
attraversando a piedi l'isola di Skye, fu colto dall'oscurità della sera mentre
si trovava in prossimità di una fattoria, dove pensò di chiedere ospitalità fino
al mattino seguente. La strada da percorrere era ancora tanta, e una buona notte
di riposo sarebbe stata provvidenziale. Quando bussò alla porta della casa,
l'uomo che vi abitava lo accolse dandogli il benvenuto, lo fece entrare nella
stanza riscaldata dal fuoco di torba
che ardeva nel focolare e gli diede di che mangiare e bere. Poi gli chiese se
avesse qualche storia o favola da raccontare. L'uomo di Uist rispose che non era
in grado di ricordarne nemmeno una.
"È molto strano che non abbiate nemmeno una storia da narrare" disse l'uomo che
l'ospitava. "Sono sicuro che ne avrete ascoltate parecchie, nella vostra vita."
"Certo, mi è capitato, ma in questo momento non me ne viene in mente nessuna"
rispose l'uomo di Uist.
Il padrone di casa iniziò allora a raccontare le storie e le fiabe che
conosceva, e le lunghe ore della sera
passarono piacevolmente fino a che arrivò il momento di coricarsi. A notte ormai inoltrata i due si alzarono dalle sedie accanto al fuoco per andare a dormirei il fattore condusse
l'uomo di Uist in uno stanzino accanto alla porta d'ingresso, dove si trovava un
letto di paglia, e gli augurò la buona notte.
Nello stanzino, fissati ad alcuni ganci, c'erano diversi pezzi di carne salata
appesi a stagionare. Non molto tempo dopo essersi messo a letto, il viaggiatore
udì la porta della casa che si apriva e vide entrare
furtivamente due figuri, i quali staccarono dai ganci i pezzi di carne salata e
se li portarono via, senza accorgersi della presenza dell'uomo sdraiato nel
letto.
L'uomo di Uist pensò tra sé e sé che sarebbe stata proprio una gran brutta
faccenda se quei tipacci si fossero portati via la carne, perché gli abitanti
della casa avrebbero pensato che era stato lui a farla sparire. Rivestitosi in
fretta e furia, si mise a correre dietro ai ladri.
Dopo un po' di tempo che li inseguiva, uno di essi si voltò e lo vide, mentre
cercava di osservare le loro mosse nascosto dietro a un cespuglio. Il fuorilegge
disse allora al suo compare: "Dietro quel cespuglio, là in fondo, c'è un tizio
che ci sta seguendo! Scommetto che ci ha visti rubare la carne. Torniamo
indietro e acciuffiamolo, prima che possa andare a raccontare a qualcuno quello
che ha visto!" I due tornarono sui loro passi, e l'uomo di Uist si mise a
correre con le gambe in spalla verso la casa, dove contava di trovare rifugio.
Ma i ladri riuscirono ad aggirarlo e a mettersi fra lui e la fattoria. Quando se
ne accorse, l'uomo prese immediatamente un'altra direzione senza smettere di
correre, e continuò a scappare finché a un certo punto udì il rumore delle
rapide di un grande fiume che scorreva nelle vicinanze. Decise così di cercare
la salvezza nascondendosi fra la vegetazione che cresceva lungo le sue rive.
Preso dal panico, inseguito da vicino dai due malviventi, l'uomo di Uist perse l'equilibrio e cadde nel fiume, dove la corrente lo
trascinò via come un fuscello. Fu più volte sul punto di venire inghiottito dai
gorghi e di affogare miseramente, ma alla fine riuscì ad aggrapparsi al ramo di
un albero che cresceva sulla sponda a lui più vicina, e vi si tenne attaccato
con tutte le sue forze.
Era troppo terrorizzato per cercare di spostarsi da quella scomodissima
posizione; da lì poteva udire i due uomini che continuavano a cercarlo lungo la
riva del fiume, passando e ripassando vicino al punto nel quale si trovava. Nel
tentativo di fari o uscire dal suo rifugio, i due malviventi gettavano pietre
negli anfratti nascosti dal folto degli alberi, e l'uomo poteva sentire le
pietre che volavano tutt'intorno a lui.
Rimase nascosto fino all'alba. Era stata una notte molto fredda, e quando cercò
di uscire dall'acqua del fiume non vi riuscì, perchè le sue gambe erano tanto
indolenzite che non riusciva a muoverle. Allora cercò
di richiamare l'attenzione gridando, ma neanche questo gli fu possibile. Alla
fine riuscì a emettere un urlo soffocato facendo un gran balzo in avanti e,
improvvisamente, si svegliò. Si trovava sul pavimento a fianco del letto,
aggrappato con entrambe le mani alla coperta. L' uomo che lo aveva ospitato aveva
gettato un incantesimo su di lui durante la notte!
Il mattino dopo, mentre stavano facendo colazione, il fattore gli disse: "Bene,
sono sicuro che dovunque vi
troverete, la notte prossima, avrete una storia da raccontare anche se la notte
scorsa non ne avevate."
Questo è ciò che accadde all'uomo che non aveva storie da raccontare. Tutti noi
dovremmo ricordarcene e tenere in serbo almeno una storia o una fiaba da
poter narrare a chi ci sta vicino, nelle lunghe nottate accanto al fuoco.
IL SUONATORE DI CORNAMUSA DI KEIL
Una tenebrosa grotta si apre, minacciosa, tra le frastagliate scogliere della
costa del Kintyre. Si racconta che, molto tempo fa, questa grotta fosse abitata
da fate e folletti. Subito oltre il suo nero ingresso una ragnatela di
strettissime gallerie si diramava fin dentro le profondità della terra,
raggiungendo la grande sala di ritrovo del Piccolo Popolo. Migliaia di ceri
fatati illuminavano l'antro, mentre invisibili suonatori diffondevano magiche
melodie. Qui i folletti si ritrovavano per far festa e danzare attorno alla loro
Regina e sempre qui venivano pronunciate le sentenze contro i mortali scoperti a
penetrare nei loro territori.
Quasi nessuno però era tanto audace o incosciente da spingersi oltre il
tenebroso ingresso della grotta.
Gli abitanti della costa erano ben consapevoli dei pericoli e degli incantesimi
a cui ogni mortale andava Incontro se avesse osato profanare quei territori.
E qui inizia la nostra storia. A Keil viveva un giovane di nome Alasdair, un
bravissimo suonatore di cornamusa la cui abilità era nota in tutto il Kintyre.
Al termine di una faticosa giornata di lavoro, i suoi compaesani si riunivano
per far festa nelle calde stanze che rosseggiavano per le fiamme dei bracieri di
torba.
E Alasdair li accompagnava eseguendo antiche arie, quelle conosciute già dai
loro antenati: al ritmo di un reel riusciva a far danzare tutti i presenti e a
rallegrare gli spiriti, riscaldati da frequenti giri di spumeggianti boccali di
birra. Accanto ad Alasdair non mancava mai il suo piccolo terrier: cane e
padrone erano inseparabili come una mamma e il suo piccino!
Una di quelle sere, proprio mentre danze e allegria erano al culmine, Alasdair
interruppe la musica e, reso audace dalle molte sorsate di birra, si rivolse
così ai compagni festanti: "Ora vi suonerò un'aria così dolce e sconvolgente da
risultare ancora più bella di quelle eseguite dai menestrelli del Piccolo Popolo,
laggiù
nella grotta della scogliera."
Quindi sollevò la cornamusa per riprendere a suonare. Gli amici della compagnia lo guardarono
sbalorditi per la sua
temeraria affermazione. A tutti eranoto come i folletti fossero gelosi e
diventassero gelosi e aggressivi verso quei mortali che avessero cercato di
misurarsi con loro.
Alasdair non riuscì comunque a trarre più di un paio di note dalla sua cornamusa
perchè Iain MacGraw, un
fattore del luogo, lo interruppe, rivolgendosi a tutti i presenti: "Ascoltami
Alasdair: sarebbe più prudente se ritirassi ciò che hai appena affermato. Tu sei
certamente il più abile suonatore di cornamusa del Kintyre ma sappiamo anche che
gli abitanti della grotta misteriosa sono capaci di emettere melodie tanto
struggenti da allontanare un bimbo dalla sua mamma o un uomo dalla donna che
ama." Sorridendo, ma con fermezza e presunzione, il suonatore di cornamusa gli
rispose: "Ho ascoltato il tuo pensiero, Iain MacGraw, e non posso far finta di
niente. Ma scommetto con te che questa notte stessa riuscirò a introdurmi nella
grotta sulla scogliera e poi a uscirne senza subire alcun danno: nessun folletto
potrà ostacolare il mio cammino con una melodia più soave o più gaia di questa!"
I presenti rimasero ammutoliti nell'udire l'avventato proposito del suonatore,
ma Alasdair, incurante dello sconcerto che aveva creato, riprese in braccio la
cornamusa e le note incantatrici della Melodia senza nome" si diffusero nelle
stanze. Nessuno dei presenti aveva mai udito un'aria più soave o più gaia di
quella!
La notizia della sfida di Alasdair arrivò in un battibaleno alle orecchie del
Piccolo Popolo, che si trovava riunito nella sala centrale della grotta. Un
grande sdegno e risentimento verso l'imprudente suonatore di cornamusa di Keil
serpeggiavano nelle menti e nei cuori degli abitanti del mondo sotterraneo. Il
popolo
delle caverne si preparò a vendicare l'offesa: i menestrelli fatati mutarono la
loro musica in una melodia minacciosa, le migliaia di magici ceri sprigionarono
bagliori funesti e la stessa Regina degli Elfi preparò un potente incantesimo il
cui effetto fosse fatale per l'incauto suonatore di cornamusa, se questi si
fosse davvero arrischiato a entrare nel suo regno.
Alasdair, intanto, si allontanò dal luogo di ritrovo per dirigersi verso la
scogliera, continuando a suonare la "Melodia senza nome" in compagnia del
piccolo terrier. Il cane, lui sì, forse aveva avuto un cattivo presentimento
visto che gli si erano drizzati i peli e un ringhio feroce gli era uscito dalla
gola. Ma, affezionato com'era al suo padrone, continuò a marciargli accanto fino
all'ingresso della buia caverna.
Arrivati che furono, i compaesani di Alasdair si scostarono di lato e rimasero a
osservare. Senza alcuna esitazione, con il kilt che ondeggiava al ritmo dei suoi
passi e il berretto fieramente calcato sulla testa, il suonatore di cornamusa
si avviò nell'oscurità della caverna, insieme al cagnolino che gli trotterellava
accanto.
I presenti cercarono di aguzzare la vista per penetrare l'oscurità della grotta
e vedere, fin dove possibile Alasdair che si allontanava. Ma riuscirono solo a
udire il limpido suono della cornamusa che svaniva nel buio. Numerosi furono
coloro che, scuotendo il capo, dissero: "Non ci voglio pensare ma ho paura che
non, l' rivedremo più il nostro bravo suonatore di cornamusa.
Passarono solo pochi minuti e il gioioso suono della cornamusa di colpo si
trasformò in uno sgraziato stridore. Una soprannaturale risata, come un'eco
rifratta dalle profondità della terra, si fece strada attraverso cunicoli e
anfratti per giungere fino alle loro orecchie, all'ingresso della grotta. Poi,
il silenzio.
I vicini di Alasdair non avevano più il coraggio di muoversi. Bloccati dal
terrore, come statue di ghiaccio, videro uscire dall'imboccatura della caverna
un cagnolino stravolto dalla paura, che zoppicava e si lamentava senza sosta.
Ben difficile era riconoscere in
quel corpo completamente privo di peli, il piccolo terrier di Alasdair che
correva fuori dalla grotta come inseguito dai verdi, feroci segugi del Piccolo
Popolo.
Ma di Alasdair, nessuna traccia. Alcuni compaesani attesero fino al mattino
inoltrato, quando il sole aveva già fugato i rosati chiarori dell'alba marina.
Vanamente si protendevano sull'ingresso della grotta, chiamandolo Con le mani ai
lati della bocca nel tentativo di dar più forza alle loro grida: il suonatore di
cornamusa di Keil non fu mai più visto. Non un uomo, in tutto il Kintyre,
avrebbe avuto il coraggio di oltrepassare il buio impenetrabile che si stendeva
oltre la nera fenditura sulla Scogliera, per avventurarsi in una vana ricerca.
Tutti avevano d't Il' d' u I o que a rIsata Isumana che ancora adesSo provocava
brividi di terrore lungo la schiena!
Qualcuno potrebbe pensare che la vicenda del suonatore di Keil si chiuda qui. Invece, ha
un seguito. Parecchio tempo dopo i fatti che abbiamo raccontato, una notte il
fattore Iain McGraw e sua moglie sedevano accanto al focolare della loro casa,
che distava svariate miglia dalla costa.
A un certo punto alla donna parve di udire un suono misterioso e accostò
l'orecchio al piano di pietra del camino. "Ascolta, marito mio, non senti anche
tu il suono di una cornamusa?" chiese al suo uomo.
Il fattore poggiò l'orecchio sulla pietra e, pochi minuti dopo, sollevò il capo
indirizzando alla moglie uno sguardo stupefatto. La dolce musica che entrambi
avevano udito non era altro che la "Melodia senza nome" e, senza dubbio alcuno,
il suonatore era Alasdair in persona che scontava la pena inflittagli dal
Piccolo Popolo: vagare per l'eternità nel dedalo dei cunicoli che occupavano
un'immensa superficie sotto la terra.
La coppia, intanto, era rimasta in ascolto. La melodia tacque improvvisa e fu
sostituita dalla voce del suonatore che. innalzava il suo lamento:
"Io credo, io temo
che mai potrò vincere.
Ochone! per la mia pena infinita."
Ancora oggi si racconta che, nel luogo dove sorgeva la fattoria di Iain McGraw,
qualcuno abbia udito provenire dalle viscere della terra il malinconico suono
della cornamusa e che, come ogni volta, un disperato lamento abbia interrotto la
dolce melodia.
IL BIMBO SOSTITUITO E LA VECCHIA SAGGIA
C'era una volta una giovane mamma che pensava, come spesso accade, che il suo
bimbo fosse così bello da non avere rivali nel mondo. Andava ripetendo a tutti
questa sua convinzione benché avessero più volte tentato di spiegarle che un
simile comportamento poteva essere fonte di grandi sventure.
"Perché non dovrei farlo sapere a tutti?" insisteva la donna. "La verità è che
non si è mai visto un bimbo bello come il mio piccino." "Non sai che cosa
potrebbe succedere" borbottavano i compaesani scuotendo il capo. "Stai attenta o
te ne pentirai." Il bimbo, intanto, continuava a crescere in buona salute e
sempre più bello, finché uno sfortunato giorno la mamma si avviò sulla collina
per raccogliere mirtilli. Fece una bella passeggiata reggendo il bimbo con Un
braccio e una cesta con l'altro; poi, giunta in una radura coperta da soffice
erba e racchiusa da verdi
cespugli, distese lo scialle sul prato e vi adagiò il bambino. Solo così avrebbe
potuto raccogliere una grande quantità di mirtilli; con i suoi giochi infatti il
bimbo l'avrebbe senz'altro intralciata, per non dire dei mirtilli che
probabilmente avrebbe tolto dal cesto alla stessa velocità con cui lei li
raccoglieva.
La giovane donna si mise dunque all'opera e, un mirtillo dopo l'altro, senza
neppure avvedersene, si spostò sempre più lontano dalla radura in cui aveva
lasciato il piccino. Il cesto era ormai colmo quando dalla radura iniziarono a
levarsi degli acutissimi strilli.
"Non mi ero accorta di averlo abbandonato così a lungo" pensò, correndo
preoccupata verso lo spiazzo erboso.
Sempre sdraiato sullo scialle, il bimbo aveva il viso rosso e grinzoso per il
pianto incessante; a nulla valsero baci e dolci parole, il piccolo non faceva
che urlare e scalciare. Alla donna non restò che prenderselo in
braccio e avviarsi verso casa in tutta fretta.
Appena toccò la sua culla, il piccino, che aveva continuato a sbraitare per
tutto il tragitto, raddoppiò le urla. Nonostante provasse con tutto il suo amore
di mamma la donna non riusciva a calmarlo; l'unico
momento in cui gli strepiti cessarono fu quando gli offrì del cibo. Anche in
questa circostanza però il comportamento del bambino si dimostrò alquanto
strano: sembrava infatti che non riuscisse mai a saziarsene. La sua bocca era
sempre aperta e le cucchiaiate di pappa d'avena non bastavano mai. La sua fame era tale che fece rapidamente
sparire tre scodelle di pappa, una gran ciotola di latte e svariate focaccine.
E, ancora, non si mostrava soddisfatto. Avrebbe continuato a mangiare se la
mamma, sbalordita da come una creatura così piccola fosse riuscita a ingurgitare
tanto cibo, non avesse deciso di smettere di assecondarlo.
Ormai era impossibile negarlo: il bimbo era indiscutibilmente cambiato e, come
se non bastasse, anche il suo aspetto continuava a mutare. Nel giro di poco
tempo, gambe e braccia si fecero magre come stecchi, lo sterno sporgente come
quello di un pollo spennato e la testa divenne tanto grande da risultare del
tutto sproporzionata al resto del corpo. Inoltre continuava a urlare e a essere
perennemente affamato, malgrado fosse nutrito con grandi quantità di cibo. Il
suo viso era diventato come quello di un vecchietto: rosso e grinzoso per il
gran piangere. La mamma era a dir poco disperata.
Venuti a conoscenza dell'accaduto e di come la donna fosse incapace di risolvere
i problemi del bimbo, i paesani andarono a trovarla con l'intenzione di fornirle
aiuto. Ma quando videro il piccolo, non poterono far altro che scuotere la testa
e andarsene.
Come furono lontani dalla casa e sicuri che la mamma non potesse udirli, si
misero a discutere tra loro.
"L'avevamo avvertita" diceva uno.
"Ma certo, è chiaro come il sole" insisteva un altro.
E ancora: "Gliel'avevamo detto che avrebbe finito per pentirsene!" "Già, a furia
di vantarsi della bellezza del bambino!
È stato come volersi mettere nei guai da sola." Tutti annuirono con saccente
condiscendenza. Ma nessuno ebbe il coraggio di andare dalla donna e dirle in
faccia le conclusioni alle quali erano arrivati.
Qualche tempo dopo, una vecchia che viveva a poca
distanza dal villaggio venne a conoscenza delle disavventure di mamma e bambino.
La vecchia era nota a tutti per la sua saggezza e si diceva anche per la
conoscenza delle arti magiche, tanto che in molti la ritenevano una strega. per
accertarsi delle notizie che le
erano giunte, la dopna si mise lo scialle sulle spalle, chiuse la porta di casa
e si incamminò verso la dimora della povera mamma.
Si presentò, entrò ed esaminò a lungo il piccolino.
"Cara ragazza" sentenziò infine, "non c'è proprio da stupirsi se il bimbo non
sta bene. Questo non è tuo figlio. Nella culla c'è un altro bambino: qualcuno lo
ha sostituito con il tuo figliolo." A quelle parole la mamma scoppiò a piangere,
nascondendo il viso nel grembiule.
"Sai cosa temo?" aggiunse la vecchia in tono di rimprovero. "Che tu sia andata
in giro decantando a tutti la bellezza del tuo bimbo." "Oh sì, è proprio così!"
si disperò la giovane mamma. "E sì che mi avevano messa in guardia." "Ecco come
è andata" spiegò la vecchia. "Le fate hanno sentito le tue lodi e hanno deciso
di portarsi via il tuo bel bambino. Così lo hanno rapito mettendo al suo posto
il loro brutto marmocchio." La donna era sempre più sconvolta.
"Quando possono aver fatto la sostituzione?" chiese la vecchia.
La povera mamma smise di piangere per un istante:
"Sulla collina, quando raccoglievo i mirtilli. È rimasto solo per pochi minuti e
da allora non è più lo stesso." Poi ricominciò a piangere quasi quanto il bimbo
che urlava nella culla.
"Calmati, ragazza mia e smetti di lamentarti" la rimproverò la vecchia. "Anche
le situazioni più gravi hanno qualche via d'uscita. Corri a prendere un bel
fascio dell'erba della radura sulla collina e dammi lo scialle sul quale hai
adagiato il piccolo. Vedrai, riusciremo presto a rendere l'intruso alle fate e a
riavere indietro il tuo bimbo." La mamma corse d'un fiato su per la collina,
raggiunse lo spiazzo erboso e raccolse un bel po' di erba.
Poi tornò a casa dalla vecchia, che prese lo scialle su cui era stato adagiato
il piccolo, lo avvolse attorno al
fascio d'erba e si mise il fagotto sulle ginocchia, cullandolo come un bimbo.
"Siediti accanto alla culla" disse alla giovane mamma, "e stai ben attenta a non
muoverti e a non parlare fino a quando non te lo dirò io." La vecchia si mise
quindi all'opera. Riempì d'acqua un gran pentolone e lo mise sul focolare senza
smettere di cullare il fascio d'erba avvolto nello scialle.
Ben presto l'acqua iniziò a bollire; la vecchia attizzò di nuovo il fuoco e,
quando il pentolone sembrava quasi un vulcano, si mise il fagotto sotto un
braccio, afferrò un grosso mestolo di legno e prese a rimescolare l'acqua
vorticosamente.
A ogni giro di mestolo ripeteva questa cantilena:
"Fuoco, fuoco, avvampa, avvampa!
Fai quest'acqua calda, calda!
Fai bollire il pentolone!
Ecco il marmocchio nel calderone!"
E con un gesto repentino gettò il fascio d'erba avvolto nello scialle dentro
l'acqua bollente!
All'improvviso il bimbo sdraiato nella culla balzò a sedere, lanciando un
urlaccio acuto: "Mamma!" chiamò a gran voce, "vieni subito a prendermi, stanno
per buttarmi nel pentola ne!" La porta di casa si spalancò con un gran frastuono
e una fata dall'aspetto sconvolto si precipitò nella stanza. Senza proferire
parola, sollevò il suo marmocchio dalla culla e, senza tanti complimenti, vi lasciò cadere il bimbo rapito.
"Tieniti il tuo bambino che io mi terrò il mio!" strillò, e in men che non si
dica era già uscita dalla porta.
"Bene, bene" disse la vecchia soddisfatta. "Prendi pure in braccio il piccolino
perché questo è davvero il tuo figliolo." Quindi uscì dalla porta avviandosi
verso la sua dimora.
La giovane mamma, con il volto rigato da lacrimoni di gioia, corse a
riabbracciare il suo bambino e, tenendolo sempre stretto a sé, rincorse la
vecchia per ringraziarla. Questa però le rivolse un unico ammonimento: "D'ora in
poi bada a non andartene in giro vantandoti stoltamente dei tuoi bambini." Negli
anni che seguirono la giovane donna ebbe numerosi altri figlioli, uno più bello
dell'altro, ma nessuno la udì mai pronunciare ad alta voce una sola parola di
compiacimento sulle sue creature. Aveva imparato la lezione: potrebbe sempre
esserci una fata pronta ad ascoltare nei dintorni.